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canto quinto. | 441 |
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Onde restònne cum disconcio[1] e scorno,
Chè ben perfetto non si puote avere:
E súbito al rumor recòssi in mano
La sua Fusberta il sir di Montalbano.
20 Riguarda quello, e vede giù da un monte
Scendere un toro fra tre vacche belle;
E un pastor grande, che di fresco monte[2]
Tutte le aveva, seguitava quelle,
Che avea un sol occhio in mezzo della fronte:
Nè già vi scrivo favole e novelle,
Che grande era quell’occhio a ponto a ponto
Quanto quattro comuni, a giusto conto.
21 Questo non crederà qualche vulgare
Che poco sale nella zucca serra;
Chè sol dà fede a quel che all’occhio appare
Il vulgo ignaro, che vaneggia ed erra:
Come che[3] a un cieco descriveste il mare
Quanto sia grande, e i monti[* 1] della terra,
E la torr’ di Babel, e che vi è gente
Che tutta è nera, crederebbe niente.
22 Ma talor più ragion che ’l senso vede,
Che lo intelletto è di maggiore altezza,
E i mostri di natura esser concede,
Anzi più volte il sentimento sprezza.
Chi credería che ’l Sol, che par d’un piede,
A noi che siam qua giuso, di grandezza,
Della Terra maggior sia per natura
Centosessantasei volte[4] a misura?
23 Se creder non volete a’ scritti miei,
Prestate fede almeno al buon Turpino;
Credete il ver, ch’il falso io non direi:
Non son greco bugiardo, ma latino.
Chi crederebbe l’essenzia di Dei,
- ↑ Il MS.: disconzo.
- ↑ Cioè munte. — (A.-G.)
- ↑ Per: Come se.
- ↑ Qui il poeta segue la credenza volgare al suo tempo sulla grandezza comparativa tra il Sole e la Terra; ed il Varchi, nella XIX Lezione sulla Divina Commedia, dice: il Sole, il quale è il maggiore anzi il padre di tutti i lumi, contiene la Terra 166 volte e 3/8. (Vedi Varchi, Lezioni sul Dante, pag. 529). Gli astronomi moderni però fanno il Sole 1,326,480 volte maggior della Terra. — (A.-G.)
- ↑
- mostri.