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ELEGIE.
I.[1]
Quel fervente desío, quel vero ardore
Che diè principio e mezzo a’ desir miei,
3Darà ancor fine a’ miei stenti e sudore.
Nè curo i sospir più, nè tanti omei,
Nè le minacce, teme, ire e paura,
6L’abisso, il mondo, il ciel, uomini e dei;
Che una fondata rôcca, alta e sicura,
Mi guarda il regno mio, detta costanza,
9Che ferro e fôco e martellar non cura.
I fondamenti ove si posa e stanza,
Son di stabilità viva fermezza;
12La calce e pietre son perseveranza;
L’inespugnabil mur viva fortezza,
Le sue difese, scudi e bastïoni,
15Son fè ch’ogni timor fugge e disprezza.
Regge speranza il mastro torrïone
Sotto due guardie; una, fedel, chiamata
18Prudenza; e l’altra, svegliata, ragione.
Castellano è un amor fermo e provato,
Che scorge il tutto; i sergenti son poi
21Solleciti pensier, ciascun fidato.
L’artigliería, i sassi e i dardi suoi
È audacia, i parlar pronti e acuti sguardi
24Come dicesse: — Accóstati, se puoi. —
- ↑ Questo e i due componimenti che seguono furono ristampati dal Barotti a maniera di appendice, traendoli dall’edizione delle opere ariostesche fatta da Stefano Orlandini. Derivano i due primi da un antico libercolo, intitolato Forza d’Amore, ed impresso nel 1537 ad istanza di un Ippolito Ferrarese, a cui l’erudito che sopra dicemmo non si astiene dal dare i titoli di buffone e di impostore; confessando altresì di aver più volte avuto in pensiero di cancellarli tutti e tre dalla sua raccolta. Il Molini che li aveva riprodotti nella sua edizione del 1822, li omise in quella, da noi più spesso consultata, del 1824.