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elegie. 449

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V.[1]


  Vo navigando un mar d’aspri martirî
In fragil barca, perigliosa e grave.
3Col vento impetüoso de’ desiri.
  E voi, che avete del mio côr la chiave,
Me ritenete al fin come vi piace,
6Qual áncora talor smarrita nave:
  Voi m’acquetate,[2] e ritenete in pace
Le torbide onde dell’avverso mare,
9Gonfiato da pensier dubio e fallace:
  Voi sête il porto del mio navicare,
Voi calamita sête e la mia stella,
12Qual sola seguo e che sempre m’appare.
  Voi sola nel furor d’ogni procella
Chiamo al mio scampo, e risôna ’l bel nome
15Non men drento del cor, che ’n la favella.
  Chiàmavi l’alma, e non saprei dir come
Siano scolpite in me tutt’oramai
18Vostri occhi, vostri modi e vostre chiome.
  Da questo vien ancor ch’io mi privai,
Lasso! del côr e di mia libertate,
21Dandomi ’n preda agli amorosi guai.
  Ma fui costretto da sì gran beltate,
Che me stesso ad Amor me diedi ’n dono,
24E diedi a voi di me la potestate.
  Ma tutto è vostro quel che ad altrui dono,
Però ch’alfln tutto vi rende Amore,
27Nè posso esser d’altrui, se vostro i’ sono,
  Tenendo voi la rôcca del mio côre.




  1. Questo componimento, e quello che viene appresso, si videro pubblicati per occasione di nozze, in Venezia, nell’aprile del 1856, a cura dell’egregio signor Giovanni Veludo, che li trasse da un codice miscellaneo della Biblioteca Marciana (Append. ai MSS. Ital., CI. XI, Cod. LXVI). In quanto al primo, confessò l’editore medesimo di non trovarvi segni o caratteri che «render possano piena certezza della sua legittimità.»
  2. Il Codice: acquietate. — (Veludo).

38°

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