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canzoni. 463

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E di mille color farsi ogni riva;
L’aër chiarirsi, e ’l vento
65Fermarsi al suon di sue parole attento.
  Ben, sì come a rispetto
Dell’ampio ciel stellato
La terra è nulla, o veramente centro;
Così del mio concetto
70Quello c’ho fuor mandato,
È proprio nulla a par a quel c’ho dentro.
Veggio ben ch’io non entro
Nel mar largo e profondo
Di sue infinite lode;
75Che l’animo non gode
Gir tanto innanti, chè paventa il fondo:
Però lungo le rive
Va ricogliendo ciò che parla e scrive.
  So, Canzonetta mia, ch’avrai vergogna
80Gir così nuda fuore;
Ma vanne pur, poichè ti manda Amore.




IV.[1]


  Quante fiate io miro
I ricchi doni e tanti
Che ’l ciel dispensa in voi sì largamente,
Altrettante io sospiro:
5Non che ’l veder che innanti
A tutte l’altre donne ite ugualmente,
Mi percuota la mente
L’invidia;[2] chè a ferire
In molto bassa parte,
10Se la ragion si parte
Da un alto oggetto, mai non può venire;


  1. Avverte il Barotti che questa Canzone non trovasi ne’ manoscritti, e che taluni pensarono non esser cosa di messer Lodovico, perchè mancante dello spirito e della fantasia di che abbondano gli altri suoi componimenti.
  2. Così suonano questi quattro versi nelle anteriori edizioni: ma sembra che, per sintassi più regolare e più chiara, dovrebbe leggersi: Non che al veder, ovvero: D’invidia.
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