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canzoni. 465

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Che per venire a pôrse
55In vostre man, dovesse esservi a sdegno.
Se n’è stato cagione
Vostra beltà, che corse
Con troppo sforzo incontro al mio disegno;
Egli sa ben che degno
60Parer non può l’abbiate,
Dopo lungo tormento,
In parte a far contento:
Nè questo cerca ancor, ma che pietate
Vi stringa almen di lui,
65Ch’abbia a patir senza mercè per vui.
  Canzon, conchiudi in somma alla mia donna,
Ch’altro da lei non bramo,
Se non che a sdegno non le sia s’io l’amo.




V.[1]


  Quando ’l sol parte e l’ombra il mondo côpre,
E gli uomini e le fere,
Nell’alte selve e fra le chiuse mura,
Le loro asprezze più crudeli e fere
5Scordan, vinti dal sonno, e le loro opre;
Quando la notte è più quêta e sicura;
Allor l’accorta e bella
Mia vaga pastorella


  1. Gian Francesco Doni, nei Marmi, produsse la prima volta questa Canzone, non però sotto il nome dell’Ariosto, ma sotto quello di un Fra Jacopo de’ Servi; e tra le Rime di diversi nobili uomini ec. stampate dal Giolito (1547) vedesi attribuita a Giulio Cammillo, giudicato dal Crescimbeni «più idoneo a insegnare i precetti dell’arte dello scrivere, che a metterli in pratica.» Gian Batista Baldelli, nella sua prefazione alle Rime del Boccaccio, credè aver dimostrato ch’essa era opera del nostro autore, benchè la copia conservatane nel convento de’ Serviti di Firenze, sembrassegli scritta di mano del Varchi. Il Baruffaldi, aderendo al Baldelli, ne riportò due strofe con la chiusa, per saggio; e il Poggiali, stimandola inedita, la stampò per intero nel volume primo de’ suoi Testi di lingua (Livorno, 1813). I biografi andaron lieti di trovarvi la conferma dell’opinione che attribuiva a messer Lodovico l’amore di una donna chiamata Ginevra, che alcuni credettero della famiglia fiorentina de’ Lapi, e che forse fu quella alla quale egli avea rivolto l’animo per divertire gli effetti della passione concepita verso Alessandra Benucci, com’è adombrato nella strofa quarta della Canzone I, ed anche nel Sonetto VII.
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