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atto quinto. — sc. ii. | 101 |
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Pasifilo. Se m’avessi fatto giudice de’ savî,[1] tu non mi davi officio che più secondo il mio appetito fusse. Io vi vo di botto.
SCENA III.
EROSTRATO solo.
Più presto che mi è stato possibile, levato m’ho costui da canto, perchè non veda le lagrime e non oda li sospiri che nè più gli occhi miei nè ’l petto mio richiudere ponno. Ah maligna fortuna! li mali, che dispensati a parte a parte fra molti anni sarebbono stati a fare un uom miserrimo sufficienti, tutti insieme raccolti da due ore in qua me gli hai versati in capo! Nè sono al fine ancora; che già mi preveggio molto maggiori di questi, infiniti e memorabili, apparecchiarsi. Tu, il padron mio che nella sua più verde età non uscì mai di Sicilia, ora hai nella più decrepita sin a Ferrara voluto condurre; e questo giorno appunto, quando meno era il bisogno nostro! Tu gli hai cresciuti e minuiti e temperati così ben i venti, che nè prima di oggi, nè dopo tre giorni o quattro n’ha possuto giungere! Nè ti bastava avermi gettato questo laccio ne’ piedi, se ancora non facevi l’amorosa trama del giovene Erostrato insiememente discoperta riuscire? Tu l’hai tenuta[2] già due anni sin a quest’ora occulta, per riserbarti a questo scelerato giorno a rivelarla. Che debb’io, ah lasso! che posso fare io? Più non è tempo da immaginare astuzie. Troppo ogn’ora, ogni attimo è periculoso, che dare si differisca ad Erostrato soccorso. Bisogna finalmente ch’io vada a ritrovare il padron mio Filogono, e che a lui senza una minima bugía tutta l’istoria narri, acciò ch’egli alla vita del misero figliuolo con súbito rimedio provvegga. Così è il meglio; così farò dunque, avvengachè certissimo sia, che estremo supplizio me ne abbia a succedere. L’amore ch’al padron giovene io porto, e le ubbligazioni onde io gli sono astretto, ricerca che salvare la sua vita con mio danno grandissimo non dubiti. Ma che? anderò io cercando Filogono per la terra, o pur attenderò se qui ritorni? S’egli di nuovo mi vede nella via, alzerà la voce, nè patirà