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prologo. | 119 |
Di quelle io parlo che nello increscevole
Quaranta sono entrate,[1] o pur camminano
Tuttavia innanzi. O vita nostra labile!
Oh come passa, oh come in precipizio
Veggiamo la bellezza ire e la grazia!
Nè modo ritroviam che la ricuperi;
Nè per mettersi bianco, nè per mettersi
Rosso, si farà mai che gli anni tornino;
Nè per lavorar acque, che distendano
Le pelli; nè, se le tirassin gli argani,
Si potrà giammai far che si nascondano
Le maladette crespe, che sì affaldano
Il viso e il petto, e credo peggio facciano
Nelle parti anche che fuor non si mostrano.
Ma, per non toccar sempre, per non essere
Addosso a queste donne di continuo
(Benchè toccar si lasciano, e si lasciano
Esser addosso, nè se ne corrucciano;
Sì di natura son dolci e piacevoli!).
Voglio dir due parole ancor ai giovani;
E dir le voglio a quei di corte massima-
mente, li quali han così desiderio
D’esser belli e galanti, come l’abbiano
Le donne; e con ragion, chè ben conoscono
Che in corte senza la beltà e la grazia,
Nè mai favor nè mai ricchezze acquistano.
Altri per altri effetti esser vorrebbono
Belli: l’intenzïon perchè lo bramino
Così, non vô cercar. Ma tollerabili
Simili volontà sono ne’ giovani
Più che ne’ vecchi: e pur non meno studiano
Alcuni vecchi, più che ponno, d’essere
Belli e puliti; e quanto si fa debole
Più loro il corpo (chè saran decrepiti
Se pochi giorni ancora al mondo vivono),
Tanto più fresco e più ardito si sentono
E più arrogante il libidinoso animo.
Hanno i discorsi, i pensieri medesimi,
- ↑ Una copia veduta dal Barotti leggeva: «nello increscevole Anta già sono entrate;» cioè, come spiega esso editore: «sono entrate in quel numero d’anni che finisce in anta, dove l’età già piega alla vecchiaja, massimamente per le donne.»