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126 | la cassaria. |
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Eulalia. Che promessoci
Hanno, so ben; ma che attender ci vogliano
Le promesse, non so; ne so che ci amino,
Nè tu lo sai, che lor non vedi l’animo:
Ben sappiam questo, che amar ci dovrebbono.[1]
Corisca.Se dovrebbono amarci, essendo giovani
Dabbene, come sono, tu dêi credere
Che ci amino; ed amandoci, che facciano
Quello che già mille volte promessoci
Hanno.
Eulalia. Io vorrei più tosto che negatoci
Avessin mille e duo milia, e promessoci
Di poi solamente una; chè più credito
Lor presterei. Se l’hanno a far, che tardano?
Non n’hanno voglia, Corisca, e si pigliano
Piacer di darci la baja; e grandissimo
Danno ci han fatto. Se stati non fussino
Eglino, forse venuti sarebbono
Degli altri, che manco parole datoci
Avrebbono, e più fatti. Han fatto Lucramo
Di maniera sdegnar, poichè vedutosi
Ha menar alla lunga e che l’uccellano,
Che a patto alcun non vuol più star a Sibari,
Ed[2] ogni modo domani a partircene
Abbiam. Ma ritorniam dentro, assettiamo le
Cose nostre, e facciamo quanto impostoci
Ha il patron: non gli diam, per trascuraggine
Nostra, cagion che la stizza e la collera
Sfoghi sopra di noi.
Corisca. Sorella, avendoci
Noi a partir da Sibari, vogliamoci
Senza far motto a gli amici partircene?
Eulalia.Deh, se come tu di’, costor ci fossino
Stati amici, io non credo che ci avessino,
Sorella mia,[3] lasciato a questo giungere,
Che far lor motto e pigliarne licenzia
Per partenza dovessimo; ma toltoci
Di servitude avrebbono, e tenuteci
Con esso lor in questa terra.