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Chè da quel primo giorno che amicizia
Con voi pigliammo, quanto i nostri proprii
Cuori vi amammo sempre, e sempre abbiamovi,
Come Dei nostri, avuti in riverenzia.
Ma or non più, che non tornasse Lucramo
E ci cogliesse qui.
Erofilo.                                Non credo passino
Molte ore, che potrai star meco liberamente.
Eulalia.            Dio il voglia.
Corisca.                                  Ed io?
Caridoro.                                               Non men si pratica
Il tuo ben, vita mia, che quel di Eulalia.
Corisca.Con questa speme andrò.
Caridoro.                                           Va di buon animo.
Eulalia.Addio, Erofilo.
Erofilo.                           Addio, cara mia Eulalia.


SCENA IV.

EROFILO, CARIDORO.


Erofilo.Ch’io non la faccia chiara del grandissimo
Ben ch’io le voglio, e ch’io non la certifichi
Ch’io non amo altra persona, nè voglione[1]
Mio padre... che mio padre? me medesimo
Non ne vô trar ancor, quanto la minima
Parte di lei! Le voglio questo dubbio
Tôr del capo ogni modo, che s’immagina
Ch’io le dia ciance. Oggi vô che sia l’ultima
Volta che mai più tal cosa m’improveri:
Io son disposto di farla oggi libera,
S’io dovessi restar servo in suo cambio:
Non vô che più le ciance mi avviluppino
Di Volpino, e appo lei parer mi facciano
Quel ch’io non sono, e che mai non voglio essere,
Ingrato, disleal, disamorevole.
Se Volpino non esce oggi di pratica,
Anzi se fino a questo punto altr’opera


  1. Così tutte le stampe; e giova avvertirlo pel sospetto facile a nascere, che debba piuttosto leggersi toglione; cioè, ne tolgo, ne eccettuo.
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