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atto primo. — sc. iv. 131
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Non ha fatta di quella ch’egli è solito,
Io non voglio più star alle sue chiacchiare,
Con le qual d’oggi in domane già quindici
Giorni mi mena: quando promettendomi
Di far un giunto, che senza avvedersene
Il vecchio, anzi credendo di ben spendere,
Mi darà li danari che bisognano
Di riscattarla: quando muta, e dicemi
Che vuol ordir in tal modo un’astuzia.
Che senza che mio padre mi dia un picciolo,
O ch’altri me gli presti, abbiam la giovane
In nostra potestade; e questo Lucramo,
Ch’or ha tanta arroganza, vuol far umile
E toso rimaner com’una pecora.
Ch’io stia più a questi sogni, a queste favole?
Non vi starò, per dio. Se al desiderio
Mio non potrò segretamente giungere,
Lo farò alla scoperta: non ci mancano
Argenti e robe in casa, da far subito
Le migliaja di scudi. Or, come Tantalo,
Sarò nell’acqua fino al mento e struggere
Mi lascerò di sete?
Caridoro.                                Fuss’io, Erofilo,
Pur nel tuo grado, che tolto da Sibari
Si fosse un poco il mio vecchio, e lasciatomi
La casa avesse piena ed in que’ termini
Ch’a te lasciata ha il tuo! ritroverebbela
Sì sgomberata al ritorno, che credere
Forse potría che gli Spagnuol vi fossino
Stati alloggiati alcun tempo.[1] Ma eccolo
Che vien.
Erofilo.                Chi viene?
Caridoro.                                    Il ruffian.
Erofilo.                                                    Così fossilo[2]
Portato; ma nel modo, ch’egli merita.



  1. Da questo luogo, come dall’altro corrispondente della Commedia in prosa, vollesi argomentare la sinistra impressione che l’Ariosto in sè portava rispetto alla nazione spagnuola; contro la quale avea già sbottoneggiato, nè certo ingiustamente, anche nella Satira I, v. 76 e seg.
  2. Intendi invece di foss’egli, come nella Commedia in prosa. Ed è foggiato a similitudine di eccolo, con licenza non imitata, nè certo imitabile, perchè lo dopo ecco rappresenta il quarto caso (ecce eum video), ma così unito al verbo usurpa la forza del primo.
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