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132 | la cassaria. |
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SCENA V.
LUCRAMO.
Quando si sente lodar troppo e mettere,
Come si dice, in ciel beltà di femmina,
O liberalitade d’alcun prencipe,
O santità di frate, o gran pecunia
Di mercatante, o bello o buono vivere
Che sia in una cittade, o cose simili,
Non si potrebbe mai fallir a credere
Poco; e talvolta credere il contrario
Di quel ch’apporta la fama, è stato utile.
Non si potrebbe anco fallir a credere
Più di quel che si sente, se dar biasimo
Odi ad alcuno che di latrocinio
O d’avarizia sia imputato, o dicasi
Che giuntator, che barro, che falsario
O che traditor sia: perchè li vizii
Sempremai, praticando, si ritrovano
Maggiori; e le virtudi e le lodevoli
Cose buone, minor di quel che’l pubblico
Grido ne porta. Non saprei già rendere
Di ciò la causa; ma l’esperïenze
Fatte dell’uno e dell’altro mi môveno
A dir così. Son di presente in pratica
Dell’uno più che dell’altro, e diròvvilo.
A questi giorni, trovandomi a Genova,
E quivi molte e molte volte avendo la
Mia mercanzía (di che la più fallibile
Non è nel mondo) possuta ben vendere,
E sopra tutte le spese pigliarmene
Cento fiorini, sentî dir che a Sibari,
Più ch’in luogo del mondo, si prezzavano
D’ogni sorta piaceri, e questi in spezie
Che nelle lotte amorose si pigliano;
E che i più ricchi e più spendenti giovani
V’eran,[1] ch’in altra città che si nomini
Io me ne venni, mosso dalla pubblica
Opinïone, in questa terra; e giuntoci
- ↑ Ediz. Giol.: C’eran.