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Che non mi vô partir, ma così simulo
Acciocchè questi gioveni che vogliono
O mostran di voler le nostre femmine,
Quel c’hanno a far in venti giorni, affrettino
Di fare in uno, o tosto mi chiariscano.
Dove[1] io sarò che le fanciulle l’odano,
O altri a cui mi piaccia di far credere
Ch’io mi voglia partir, ti darò un numero
Grande di commissioni. Abbi in memoria,
Ch’io non ho intenzibn che si eseguiscano;
E sopra tutto guarda non mi spendere
Danaro ch’io ti dia. Fa che sollecito
Ti mostri e diligente; ma sia il fingere
Senza mio danno. Intendimi tu?
Furbo.                                                      Intendoti.
Lucramo.Or ritorniamo verso casa. Accóstati
All’uscio un poco; un poco ancora: or férmati.
Tu di’ che ’l nocchier vuol ch’oggi si carchino
Tutte le cose nostre?
Furbo.                                    Così dicovi.
Lucramo.E vuol domani uscir del porto e mettersi
A cammino?
Furbo.                       Così m’ha detto.
Lucramo.                                                    Affrettisi,
Dunque, quel che s’ha a far. Udite, femmine
Di spesa grande e di pochissimo utile;
Che siete tanto belle e sì piacevoli,
Che non potete trovar chi vi liberi
Di servitù. Non son ciechi gli altri uomini,
Nè balordi, come io, che corsi a spendere
Il mio danajo in duo vetri, credendomi
Che fossin belle gioje: ma rendetevi
Certe, ch’io non vô stare in questa perdita.
S’io non potrò, quel c’ho speso riscuotere
Tutto a un tratto, mi sforzerò rimetterlo
Insieme a poco a poco: non puote essere
Che non vi guadagniate due o tre coppie
Di carlini ogni giorno, che soccorrere
Mi potranno a vestirvi, o almeno a pascervi.


  1. È qui data a quest’avverbio la forza di esprimere il tempo insieme ed il luogo: cioè Quando io sarò dove, o in lungo che, le fanciulle ec. Anche verso il fine di questa scena medesima: «Ma dimmelo ove le fanciulle m’odano.»
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