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158 | la cassaria. |
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Uscir di servitù di questo diavolo;
E puon sperar,[1] ch’alle belle e alle giovani
Non manca, o tosto o tardi, mai ricapito:
Ma io, che nacqui brutta, ed invecchiatami
Son oggi mai, non spero, anco volendomi
Il padron dar in dono, non che vendere.
Che mai si trovi chi voglia levarmigli.
Che maledetta sia la mia disgrazia!
SCENA V.
BRUSCO.
Egli è entrato qua dentro in una chiacchiera,
Che non sarà sì tosto per concludere.
Io non lo voglio aspettar più, ed avvengami
Quel che si vuol. Io perderò il servìzio
Che gli ho fatto, e lo perda: altri perdutone
Ho ancora: tanto è a fargli benefizio,
Quanto non fargli. Così aspetta merito
Da lui chi’l serve, come chi l’ingiuria.
Quel che gli fa l’uom per bontà, si reputa
E crede che gli sia fatto per debito.
Perchè un poco egli sa leggere e scrivere,
E tener del pagare e del riscuotere
Il conto a libro, e per questo comunica
Spesso il patron con lui le sue occorrenzie;
È venuto sì altier, che gli par essere
Egli il patron, e si tien centomilia
Volte da più. Non gli possiamo vivere
Noi altri a lato: ci grida e ribuffaci,
E ci fa scorni o villaníe da asini.
Questa sera l’avrò all’orecchie; ed abbialo:
Gli saprò molto bene anche io rispondere;
Chè non saremo questa volta a Napoli,
Nè in casa del patron, per riverenzia
Del quale io tema, e mi stia cheto e tolleri.
Ma chi son questi compagnoni ch’escono
Di là? E che n’ho a far io? Sien chi si vogliano.
- ↑ Leggiamo qui col Barotti, dove tutti gli altri hanno, meno a proposito: È buon sperar.