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atto terzo. — sc. ix. | 167 |
All’alba; crai non mi ci lascio cogliere.
Così la finzïon sarà pronostico
Stata del ver; e quel ch’era oggi fabula,
Convertita oggi ancor sarà in istoria.
Se ’l mercatante torna per riscuotere
La cassa poi, nè mi ci trovi, e vogliasi
Di me dolere, avrà torto, che dettogli
Ho prima tutte le convenïenze[1]
Mie, che sia entrato in casa mia: anzi detto le
Ha egli a me, ch’io son ghiottone e perfido,
Giuntator, ladro, barro e d’ogni vizio
Pieno. Se gli è paruto, conoscendomi,
Di pur fidarsi di me poi, solo imputi
Sè stesso. Ma ecco Furbo. Comperastimi
La fune? U’ sono i facchini che ammaglino
Le robe ch’io ti dissi?
Furbo. Ghisilastimi
Di berta ciffo?
Lucramo. Trucca, che al coriandolo
Moccato ho il vino; ho il fior in pugno, e calomi
S’io posso di Brunoro, e il mazzo compero.
Or ti canto in amaro.[2] Fa che vengano
Due facchini. Hai tre grossi in mano; spendili
In buona corda da magliare, e portala:
Corri alla piazza, che fin che non suonano
Due ore, le botteghe non vi serrano.