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atto quarto. — sc. ii. 175
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Star dovesse alla cura e alla custodia
Delle tue cose; non, tosto che vôlto gli
Abbi le spalle, partirsi, e la camera
Lasciar aperta?
Crisobolo.                         Son disfatto. Oh povero,
Oh ruinato me!
Volpino.                         Patrone, pigliaci.
Tanto ch’è fresco il mal, qualche rimedio.
Poich’io ti veggo qui, non voglio perdere
La speranza che tosto non ricuperi
La cassa[1] tua; e ben credo che t’ha Domene-
dio fatto a tempo tornar.
Crisobolo.                                        Hai vestigio,
Hai traccia su la qual mi possi mettere
Per ritrovarla?
Volpino.                           Tanto travagliatomi
Son oggi, e tanto son ito avvolgendomi
Di qua e di là, come un bracco, che credo di
Saper mostrar dove sia questa lepore.[2]
Crisobolo.Perchè non me l’hai già detto, sappiendolo?
Volpino.Non dico ch’io lo sappia certo; dicoti
Ch’io credo di saperlo.
Crisobolo.                                        A chi hai tu l’animo
Che l’abbia tolta?
Volpino.                              Tel dirò: ma tirati
Un po’ in qua; più ancora un poco; scostati
Da quella porta in tutto.
Crisobolo.                                        Di chi temi tu
Che possa udirci?
Volpino.                            Di colui ch’io dubito
Che l’abbia avuta.
Crisobolo.                              È sì appresso, che intendere
Ci possa?
Volpino.               È in questa casa, la qual prossima
Hai da man destra.
Crisobolo.                                Tu credi che toltala
Abbia questo ruffian che qui dentro abita?
Volpino.Lo credo, e ne son certo.


  1. Non bene, come a noi pare, le stampe antiche: La cosa.
  2. Lepre. Sono nella Crusca i derivati da questa forma, non però la forma stessa da cui derivano, se non con pronunzia e significazione affatto diversa.
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