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atto quinto. — sc. i, ii. | 207 |
Fulcio.Or odi. Uscía di casa ora per irsene
Un poco a spasso, come usano i giovini,
Ed io veniva seco, e per bonissima
Sorte, appiè delle scale rincontrammoci
In un certo ruffiano, il qual dice essere
Tuo vicino.
Crisobolo. Che poi?
Fulcio. Veniva in collera
Gridando, e di te molto lamentandosi,
E di Erofilo tuo con certi ch’erano
Seco.
Crisobolo. E che sapea dir?[1]
Fulcio. Volea venirsene
Diritto al capitano di giustizia,
Se Caridoro nostro ritenutolo
Non avesse, a dolersi, e fargli intendere
Certa barattería che par che Erofilo
Tuo gli abbia fatta; che se, come dettoci
Ha, fosse vera, sarebbe di pessima
Sorte.
Crisobolo. Or pon mente, se per imprudenzia
Di questo pazzarello apparecchiatomi
Sarà non poco travaglio!
Fulcio. Dicevaci,
Ch’oggi vestito avea a similitudine
Di mercatante un barro, e che mandatogli
L’avea con certo pegno...
Crisobolo. Ve’ se ’l diavolo
Ci sarà ancora!
Fulcio. Il qual pegno lasciandogli,
Il barro gli avea tolta una sua femmina.
Io non l’ho inteso appunto, chè mandatomi
Ha Caridoro in fretta ad avvisartene.
Crisobolo.Noi gli siamo obbligati: ha fatto uficio
Di gentiluomo e d’amico.
Fulcio. I dui ch’erano
Col ruffian, come ho detto, par che vogliano
Per lui testificar, e darti carico.
Crisobolo.E che carico dar mi pònno?
Fulcio. Dicono
Che ’l barro è in casa tua, e di tua scienzia
- ↑ Ediz. Giol.: E che sapea egli dir?