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212 la cassaria.

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Senza alcun danno di me e del mio esercito.
Non mi resta or se non sciormi dall’obbligo
Ch’io ti feci, Fortuna, succedendomi,
Come successa mi sei, favorevole,
Di star in onor tuo questi continui
Tre dì imbriaco, e di vino più putrido[1]
Che mai Moschino o li compagni[2] fossino.
Ma ecco s’apre l’uscio: forse Erofilo
E Volpino saran. Già non mi pajono
Dessi: ma chi è quest’altro? Or riconoscolo,
Gli è il nostro mercatante, in cui miracolo
La santa fune dimostrò, che sciogliere
Gli fe la lingua e non esser più mutolo.


SCENA V.

TRAPPOLA, FULCIO.


Trappola.Non sarà mai più ver che, con pericolo
d’averne io danno, faccia altrui servizio.
Non è per me nè per la trascuraggine
Di Volpin già mancato, che non m’abbiano
Mandato al capitano di giustizia,
Legato come un ladro; il qual se avutomi
Avesse, non potea mancar di mettermi
Immantinente alla fune, e di darmene
Duo tratti prima che volesse intendere
Altra cosa da me: poi domandatomi
N’avrebbe tante e tante, e pur facendomi
Cantare in aria a guisa delle lodole...
Fulcio.(Costui si appone.)
Trappola.                                   Ch’andava a pericolo
Di non poter mai più riveder Napoli:
Ancorchè forse levato mi avrebbono
Tanto da terra, che già non dovríano
Il guardar da lontano impedir gli arbori.
Fulcio.(Fu buona sorte che così passarsene,


  1. Putrido è qui detto dagli effetti del vino, come talvolta dicesi anche Fradicio.
  2. Di questi beoni, come di Ferraresi de’ suoi tempi, parlò l’Ariosto nella Satira I, v. 64: «Ed a messer Moschin pur dia la caccia, A fra Gualengo ed a’ compagni loro, Che metton carestía nella vernaccia.» — (Barotti.)
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