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atto secondo. — sc. ii, iii. | 239 |
Pur sicuro, chè ben faremo il debito.
Erostrato.Sareste svaligiati, ed altre ingiurie
E scorni avreste, chè a furore populi[1]
Vi caccerían come rubaldi subito.
Senese.Io li venivo ammonendo, e non dubito
Che punto punto in questa cosa fallino.
Erostrato.E con li miei di casa avete il simile
Modo a tener; che questi che mi servono
Di questa terra son tutti, nè videro
Mio padre mai, ne mai fûro in Sicilia.
Questa è la stanza; entriamo; voi seguiteci.
SCENA III.
DULIPPO.
Questa cosa non ha tristo principio,
Pur che peggiore il mezzo o il fin non seguiti.
Ma non è questo il dottor temerario
Ch’ardisce domandar sì bella giovane
Per moglie? Oh grande avarizia! oh degli uomini
Gran cecità! Per non dotar Damonio
Sì bella, sì gentil, tanto amorevole
Figliuola, pensava costui farsi genero,
Che per età convenïente suocero
Gli saría; ed ama più ch’abbia abbondanzia
Di roba, che di contento la misera
Figliuola; e empirle la borsa desidera
Di fiorini, e non cura che in perpetuo
Un’altra ch’ella n’ha, rimanga vacua.
Ma forse fa pensier che debba empirgliela
Il dottor di doppioni.[2] Io mi delibero
Di dargli un poco di baja, e di prendermi
Alquanto di piacer di questo tisico.