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primo prologo. 289
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E che si dicon l’un l’altro e rispondono
Certi versi, m’avveggio che far vogliono
Una de le sciocchezze che son soliti,
Ch’essi Commedia chiamano, e si credono
Di farle bene. Io che so quel che detto mi
Ha il mio maestro, che fra le poetiche
Invenzïon non è la più difficile,
E che i poeti antichi ne facevano
Poche di nuove, ma le traducevano
Da i Greci; e non ne fe alcuna Terenzio
Che trovasse egli; e nessuna o pochissime
Plauto, di queste ch’oggidì si leggono;
Non posso non maravigliarmi e ridere
Di questi nostri, che quel che non fecero
Gli antichi loro, che molto più seppono
Di noi sì in questa e sì in ogn’altra scienzia,
Essi ardiscan di far. Tuttavía, essendoci
Già ragunati qui, stiamo un po’ taciti
A riguardarli. Non ci può materia,
Ogni modo, mancar oggi da ridere:
Chè, se non rideremo de l’arguzia
Della Commedia, almen de l’arroganzia
Del suo compositor potremo ridere.


SECONDO PROLOGO.[1]


  Ecco la Lena, che vuol far spettacolo
Un’altra volta di sè; nè considera
Che se l’altr’anno piacque, contentarsene
Dovrebbe, e non si pôrre ora a pericolo
Di non piacervi: chè ’l parer degli uomini
Molte volte si muta, ed il medesimo
Che la mattina fu, non è da vespero.
E s’anco ella non piacque, che più giovane



  1. Dice il Barotti, ed è assai chiaro pel contesto, che questo secondo Prologo fu composto dopo che la Commedia venne dall’autore stesso ampliata di due scene, sulla fine: ampliazione indicata con quel tanto e fescennino scherzare sulla parola coda. Probabilmente, esso venne recitato nella replicazione che fecesi di quest’opera sul teatro nel 1531; di che parla il già citato Baruffaldi,alle pag. 211-212.
ariosto.Op. min. — 2. 25

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