Questa pagina è stata trascritta e formattata, ma deve essere riletta. |
atto primo. — sc ii. | 297 |
Tempo; ch’io gli conchiudo, ch’egli a mettere
Non ha qua dentro il piede, se non vengono
Prima questi danari e l’uscio gli aprano.
Flavio.Tu temi ch’io te la freghi?
Corbolo. Sì, fregala.
Patron, chè poi ti sarà più piacevole.
Lena.Io non ho scesa.[1]
Corbolo. (Un randello di frassino
Di due braccia ti freghi le spalle, asina!)
Lena.Io voglio, dico, danari e non frottole.
Sa ben che ’l patto è così, ne dolersene
Può.
Flavio. Tu di’ il ver, Lena; ma può essere
Che sii sì cruda, che mi vogli escludere
Di casa tua?
Lena. Può esser che sì semplice
Mi stimi, Flavio, che ti debba credere
Che, in tanti dì che siamo in questa pratica,
Tu non avessi trovato, volendoli,
Venticinque fiorini? Mai non mancano
Danari a li par tuoi. Se non ne vogliono
Prestar gli amici, alli sensali volgiti,
Che sempre hanno tra man cento usurarii.
Cotesta vesta di velluto spogliati,
Lévati la berretta, e all’Ebréo mandali;
Chè ben dell’altre robe hai da rimetterti.[2]
Flavio.Facciam, Lena, così: piglia in deposito
Fino doman questa robba; ed impegnala
Se, prima che doman venti ore suonino,
Non ti do li denari, o fo arrecarteli
Per costui.
Lena. Tu pur te ne spoglia, e mandala
Ad impegnar tu stesso.
Flavio. Mi delibero
Di compiacerti, e di farti conoscere
Che gabbar non ti voglio. Piglia, Corbolo,
Questa berretta e questa robba: ajutami,
Chè la non vada in terra.