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atto secondo. — sc. i. | 301 |
A me di darle.
Lena. Una saja mostratemi,
Che voi mi deste mai.
Fazio. Non vô risponderti.
Lena.Qualche par di scarpacce o di pantoffole,
Poi che l’avete ben pelate e logre, mi
Donate alcuna volta per Pacifico.
Fazio.E nuove ancor per te.
Lena. Non credo siano
In quattro anni tre paja. Or nulla vagliono
Le virtuti ch’io insegno e che continua-
mente ho insegnato a vostra figlia?
Fazio. Vagliono
Assai, nol voglio negar.
Lena. Che a principio
Ch’io venni abitar qui, non sapéa leggere
Nella tavola[1] il pater pure a compito,
Nè tener l’ago;
Fazio. È vero.
Lena. Nè pur volgere
Un fuso: ora sì ben dice l’offizio,
Sì ben cuce e ricama, quanto giovane
Che sia in Ferrara: non è sì difficile
Punto, ch’ella nol tolga dall’esempio.[2]
Fazio.Ti confesso ch’è il vero; non voglio essere
Simile a te, ch’io neghi d’averti obbligo
Dov’io l’ho: pur non starò di risponderti.
Se tu insegnato non le avessi, avrebbele
Alcun’altra insegnato, contentandosi
Di dieci giuli l’anno: differenzia
Mi par pur grande da tre lire a dodici!
Lena.Non ho mai fatto altro per voi, ch’io meriti
Nove lire di più? In nome del diavolo,
Che se dodici volte l’anno dodici
Voi me ne déssi, non sarebbe premio
Sufficïente a compensar la infamia
Che voi mi date; che i vicini dicono
Pubblicamente, ch’io son vostra femmina.