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atto secondo. — sc. i, ii. 307
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Corbolo.                         Io ’l dirò chiaro.
Lena.                                                       Portami
I danar, ch’io non so senz’essi intendere.
Corbolo.Son dunque i danar buoni a fare intendere?
Lena.Me sì, e credo anco non men tutti gli uomini.
Corbolo.Saría, Lena, cotesto buon rimedio
A far ch’udisse un sordo?
Lena.                                             Differenzia
Molta è, babbion, tra l’udire e l’intendere.
Corbolo.Fa che anch’io sappia questa differenzia.
Lena.Gli asini ragghiar s’odono alla macina,
Nè s’intendon però.
Corbolo.                                 A me par facile,
Sempre ch’io gli odo, intenderli: vorrebbono
Appunto quel che anch’io da te desidero.
Lena.Tu sei malizïoso più che ’l fistolo.
Or che l’arrosto è in stagion,[1] vien’, andiamone
A mangiar.
Corbolo.                    Vengo. Dimmi, ov’è la giovane?
Lena.Dove sono i danari?
Corbolo.                                 Credo farteli
Aver fra un’ora.
Lena.                            Ed io credo la giovane
Far venir qui come i danar ci siano.
Andiam, chè le vivande si raffreddano.
Corbolo.Va là, ch’io vengo. — Possino esser l’ultime
Che tu mangi mai più; ch’elle ti affoghino!
Mi debbo, dunque, esser con tale studio
Affaticato a comperarle e a cuocere,
Perchè una scrofa e un becco se le mangino?
Ma non avran la parte che si pensano,
Chè anch’io me ne vô il grifo e le mani ungere.




  1. È in punto; intendi, per esser mangiato. — (Tortoli.)
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