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atto quarto. — sc. ii. | 333 |
E pur, talor degli augelli si coglieno
Che caduti alla rete altre volte erano,
E n’erano altre volte usciti liberi.
Forse sarà lo ingannarlo più facile
Or che gli par che, mal successo essendomi
Le prime, rinfrancar sì tosto l’animo
Non debba a porgli le seconde insidie.
Ma che farò? che farò infin? Delibera
Tosto, chè di pensar ci è poco termine.
Io farò... che? Io dirò... sì bene; e credere
Mi potrà? crederàmmi. Ma Pacifico
Vien fuora.
Pacifico. Ov’è la veste?
Corbolo. Che? forse hammi tu
Scôrto per sarto? Oh! par che ’l mio esercizio
Non sappi. Io tengo la zecca, e vô battere
Venticinque fiorini ora per darteli.
Pacifico.Foss’egli il vero!
Corbolo. A mio senno governati.
Hai tu alcun’arma in casa?
Pacifico. Nella camera
Dipinte ho nel cammin l’arme di Fazio.
Corbolo.Dico da offesa.
Pacifico. Assai n’ho che m’offendono:
La povertà, li pensieri, la rabbia di
Mia moglier, e ’l suo sempre dirmi ingiuria.
Corbolo.Dico s’hai spiedo o ronca o spada o simile
Cosa.
Pacifico. Ci è un spiedo antico e tutto ruggine.
Ve’ se gli è tristo, se gli è male in ordine,
Che i sbirri mai non curan di levarmelo.
Corbolo.Basta, viemmelo[1] mostra. Or, bella archimia
Non ti parrà, s’io fo di questa ruggine
Venticinque fiorini d’oro fondere?
- ↑ Sopprime l’a, che l’uso vivo tra il popolo suole per lo più aggiungere in questi modi della lingua parlata; come in Vatt’a impicca, Vien’a dormi, e simili. Onde in me nasce, nè cessa, per autorità di editori, il sospetto, che l’Ariosto volesse scrivere, e scrivesse realmente: viemmela (cioè, viemmel’ a) mostra.