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336 | la lena. |
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SCENA II.
ILARIO, CORBOLO a parte.
Ilario.Oh come netta me la facéa nascere
Quel ladroncel, se non m’avesse Domene-
dio così a tempo mandato quel giovene,
Il quale a caso non già volontaria-
mente m’ha fatto pôr gli occhi alla trappola,
Nella qual per cader ero sì prossimo!
Voléa, credo, egli Flavio indurre a vendere
Le robbe di nascoso, ed in lascivie
Fargli il prezzo malmettere, e sottrargliene
Per se la maggior parte; ed io, credendogli,
Avéa di fare un’altra veste in animo
Ed un’altra berretta, per rivolgergli
L’affanno in gaudio, ch’io credéa che mettersi
Devesse pur, come di vera perdita.
Ma non mi so pensar perchè tai termini
Usi meco il mio Flavio, che ’l più facile
Padre gli sono, e quel che più mi studio
Di compiacere[1] in ogni desiderio
Onesto, ch’altri che sia al mondo. Voglione
Solo incolpar questo ghiotton di Corbolo,
Ch’io non intendo che mi stia più un attimo
In casa. Io vô cacciarlo, come merita.
SCENA III.
ILARIO, CORBOLO.
Ilario.Ancora hai, brutto manigoldo, audacia
Di venire ov’io sia?
Corbolo. Deh, questa collera
Ponete giù; e,[2] per dio! non vi contamini
La pietade.
- ↑ Le più moderne edizioni: Di compiacerlo.
- ↑ Manca nelle antiche: e, Non vi rontamini la pietade, pare qui doversi spiegare: Non vi offenda l’animo (od anche la sanità) la pietà del caso che sono per narrarvi. Delle gravi commozioni che altri soffra, il volgo suol dire che le contaminano (più comunemente, guastano) il sangue.