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atto quinto. — sc. xi. 347
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SCENA XI.

PACIFICO, LENA.


Pacifico.Or vedi, Lena, a quel che le tristizie
E le puttanerie tue ti conducono.
Lena.Chi m’ha fatta puttana?
Pacifico.                                          Così chiedere
Potresti a quei che tuttodì s’impiccano:
Chi li fa ladri? Impútane la propria
Tua volontade.
Lena.                          Anzi la tua insaziabile
Golaccia, che ridotti ci ha in miseria:
Chè, se non fussi stata io che, per pascerti,
Mi son di cento gaglioffi fatta asina,
Saresti morto di fame. Or, pel merito
Del bene ch’io t’ho fatto, mi rimproveri,
Poltron, ch’io sia puttana?
Pacifico.                                                Ti rimprovero
Chè lo dovresti far con più modestia.
Lena.Ah, beccaccio! tu parli di modestia?
S’io avessi a tutti quelli che propostomi
Ogn’ora hai tu, voluto dar ricapito,
Io non so meretrice in mezzo al Gambaro,[1]
Che fosse a questo dì di me più pubblica.
Nè questo uscio dinanzi per riceverli
Tutti bastar paréati, e consigliavimi
Che quel di dietro anco ponessi in opera.
Pacifico.Per viver teco in pace, proponevati
Quel ch’io sapeva che t’era grandissima-
mente in piacere, e che vietar volendoli,
Saría stato il durar teco impossibile.
Lena.Deh, che ti venga il morbo!
Pacifico.                                                Io l’ho continua-
mente teco. Bastar, Lena, dovrebbeti
Che della tua persona a beneplacito
Tuo faccia sempre, e ch’io lo vegga e tolleri,
Senza volerci ancor porre in infamia
Di ruffianar le figliuole degli uomini
Da ben.


  1. Vedi la nota 2 a pas. 302.
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