Questa pagina è stata trascritta e formattata, ma deve essere riletta. |
396 | il negromante. |
[[Categoria:Pagine che usano RigaIntestazione|Ariosto-Op.minori.2-(1857).djvu{{padleft:406|3|0]]
Cose d’oro, che tutte insieme vagliono
Cento scudi. Io non ho voluto venderle
Mai, sperando ch’un dì Lavinia facciano
Riconoscer dal padre. Ora, accadendoci
Questo bisogno, muterò proposito,
E venderònne tante che mi bastino
A questa somma. Non avrà lo astrologo
Prima danajo, che levar Emilia
Vegga di casa e sciôr lo sponsalizio.
ATTO QUARTO.
SCENA I.
FAZIO, TEMOLO.
Fazio.Sta pur sicura,[1] ch’io non son per dargliene
Un soldo, prima ch’io non vegga l’opera
Degna della mercede. — Or ecco Temolo.
Temo che apposto ti sia, che l’astrologo
Sia una volpaccia d’inganni e d’astuzie
Piena.
Temolo. Non volevate dianzi credermi.
Fazio.E temo ch’avrem dato a Cintio un pessimo
Consiglio, a fargli dir quel che al martorio,
Se avevamo cervel, dir non dovevasi.
Temolo.Che c’è di nuovo?
Fazio. Ci è, che assai mi dubito
Che, poi che sa come le cose passano,
Non faccia con qualche arte dïabolica,[2]
Che Cintio levi da Lavinia l’animo,
E che tutto lo volga a questa Emilia.
Pur dianzi m’è venuto a trovar Cintio,
E domandato m’ha con molta instanzia
- ↑ A Lavinia, nell’uscire di casa. — (Pezzana.)
- ↑ La dieresi posta al principio di questa parola, basta a render giusta la misura del verso. Ma potrebbe ancora considerarsi che in certi parlari d’Italia (nel romanesco in ispecie) l’ultima vocale di qualche pronunciasi con tanta forza, che spesso induce gl’indotti a scrivere qualchè.