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atto quarto. — sc. iii, iv. 493
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Datemi una secur;[1] farò gli spiriti
E le schegge volar insieme all’aria.
Ecco torna il famiglio dello astrologo:
Me non côrrà egli qui. Dategli, Fazio,
A mangiar qualch’altra ciancia, e spingetelo
Via; ch’io voglio ir di sopra, e mi delibero
Di far che più la cassa mai non trovino.


SCENA IV.

NIBBIO, FAZIO.


Nibbio.Che uomini oggi al mondo si ritrovano,
Che si dilettan, senza alcun loro utile,
Di dar tuttavía a questo e a qual molestia!
Ma io, babbion, che mi credeva d’essere
Il maestro di dar la baja, trovomi
Ch’io non son buon discepolo, chè correre
Sì scioccamente m’ha fatto una bestia.
Io me ne andavo quanto più potevanmi
Portar le gambe, e con gridi e con gemiti
Iva chiedendo a quanti m’incontravano,
Del luogo ove ferito o morto il misero
Mio padrone giacesse; ed ecco sentomi
Dalla sua voce richiamar. Rivolgomi,
E veggo lui, così ben sano ed integro
Com’io l’avéa lasciato, che m’interroga
Se la cassa ripôr secondo l’ordine
Avéa fatto. Io non potéa risponderli
Pel gaudio: pur finalmente raccontoli
Quel ch’un ghiotton m’avéa dato ad intendere.
Egli per questo m’ha fatto un grandissimo
Romor e scorno, e rimandato subito
Dietro alla cassa, della quale carico
Ho lasciato il facchino, nè avvertitolo
Dove l’avesse a portare: e pur volgomi
Intorno, e non lo so veder. U’ diavolo
S’è dileguato costui? Ma informarmene
Saprà quest’uom dabbene! — Che è del giovene


  1. Il Pezzana (se per ignoranza non offendiamo qui l’ombra sua) alzò il tuono dalla commedia insino alla tragedia, mutando: « Diasi una scure a me.»
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