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410 | il negromante. |
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Di me medesmo, tuttavía pensandoci.
Nibbio.(Che sta alla posta, e mena e fa ch’io sdrucciolo
Fino in gabella. A quest’altra mi spingono
Fuor della porta.)
Camillo. Veramente, Abbondio,
Non voglio attribuirlo sì al mio essere
Sciocco, come al voler di Dio, che accorgere
M’ha fatto per tal mezzo delle insidie
Le quali ad ambidue noi si ponevano.
Ecco un di quei che nella cassa chiusermi;
E vostra figlia e voi e me tradivano.
Nibbio.(Non so a chi mi ritorni.[1] Ma ecco il giovane
Che v’era dentro serrato. Io mi dubito,
Per dio, che avremo fatto qualche scandolo.)
Camillo.Ah ghiotton, ladro, traditore e perfido,
E tu e tuo padron! Così si trattano
Quei ch’alla fede vostra si commettono?
Nibbio.Nè io, ne mio padron mai, se non utile
Vi facemmo e piacer.
Camillo. Piacer ed utile
Grande mi saría stato, succedendovi
Di avermi fatto, come un ladro, prendere
Di notte in casa altrui!
Abbondio. L’oneste giovini
Non avete rossor, nè conscienzia,
Scelerati, di far parere adultere?
E alle famiglie dar de’ gentiluomini.
Con vostre fraudi, nota ed ignominia?
Nibbio.Parlate a lui, che vi saprà rispondere.
Camillo.Gli parlarò chiarissimo, e ben siatene
Certi, ma altrove; e vi farà rispondere
La fune e questa e vostre altre mal’opere.
Nibbio.Petete dir quel che vi par, ma ufizio
Non è già vostro, ne di gentiluomini,
Di dire o fare ai forastieri ingiuria.
Il mio padron ben sarà buon per rendervi
Conto di sè.
Camillo. Sì, sarà ben.
Abbondio. Lasciatelo
Senza risponderli altro.
- ↑ A chi mi rivolga, per aver notizia della cassa.