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atto quinto. — sc. iv. 417
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SCENA IV.

TEMOLO, poi l’ASTROLOGO.


Temolo.Era ito per trovar Cintio, con animo
d’aver il beveraggio dell’annunzio
Ottimo c’ho da dirli:[1] ma fallitomi
È il pensiero, anzi m’accade il contrario;
Ch’alcuni miei compagni ritrovato mi
Hanno, e veduto al viso e ai gesti il gaudio
Mio, ch’io non posso occultar, domandato me
N’hanno la causa: io l’ho lor detto, ed eglino
Han voluto che per questo mio gaudio
Lor paghi il vino; e perchè non ho un picciolo,
M’han levato il tabarro, e impegnarannolo
Più ch’io non ho un mese di salario.
Ma se ritrovar posso Cintio, ed essere
Il primo a darli così lieto annunzio,
Avrò da stimar poco questa perdita.
Ecco il baro; io non vô più dir lo astrologo.
Non dê saper il ghiotton che scopertisi
Sien li suoi inganni, chè con questa audacia
Non tornerebbe qui. Sarebbe opera
Ben lodevole e santa a fargli mettere
La mano addosso.
Astrologo.                                Io non so quel che Nibbio
Fatto abbia della cassa, di che carico
Avéa il facchin lasciato. Era mio debito
Di non lo abbandonar prima che mettere
Non la facesse e chiuder nella camera.
Ma mi fu in quello istante un certo giovane
A ritrovar per aver un pronostico
Da me della sua vita: proferíami
Tre scudi: io, che credéa di farlo crescere
Fin ai quattro, son stato a bada; e all’ultimo
Non ho potuto da lui trarre un picciolo,
Ed ito al rischio son di grave scandolo
Di guastar ogni cosa. Pur vô credere,
Poichè non ne sento altro, ch’abbia Nibbio
Ritrovato la cassa, e consegnatola


  1. Nota il signor Tortoli, che una sola edizione veduta da lui ha: darli.
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