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atto primo. — sc. ii, iii. | 435 |
Bonifacio.E che buone faccende così il menano?
Eurialo.Già molti anni n’ha voto. Messer Claudio
È in casa?
Bonifacio. Non.
Eurialo. Com’egli torna, diteli
Ch’io vô che mangi meco alla domestica
Questa mattina.
Bonifacio. Gliel dirò. Voletemi
Comandare altro?
Eurialo. Non altro.
Bonifacio. (Dovendoli
Dar costui disinar, meglio è non cuocere
Quelle starne. Io vo a dir che non si mettino
Più al fuoco.)
Eurialo. Colui là mi pare Accursio.
È egli non? Senza dubbio, egli è Accursio,
Il mio famiglio, che dietro restatomi
Era a Pavia, per far miei libri mettere
E miei forzieri[1] in nave. Alcuna lettera
Arrecata m’avrà della mia Ippolita.[2]
O vita mia, quanto duro e difficile
M’ è il non poter vederti! Fia impossibile
Che senza la tua vista io possa vivere.
SCENA III.
EURIALO, ACCURSIO.
Eurialo.Quando giugnesti?
Accursio. Io giungo ora.
Eurialo. Hai tu lettere?
Accursio.N’ho così poche, che so appena leggere,
Avvenga che con voi sia stato in Studio.
Eurialo.Non motteggiar: m’hai tu portate lettere
Della mia vita?
Accursio. Messer no.
Eurialo. Farestime
Ben maledire e rinnegare e rompere
La pazïenzia. Ma tu ridi? Dammile,