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atto primo. — sc. iii. 441
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Ma udite: quasi m’era di memoria
Uscito che la Veronese, avendole
Io detto a caso che qui è messer Claudio,
M’ha imposto ch’io vi preghi e che di grazia
Dimandi, che facciate che non sappia
Che sieno in questa terra ella nè Ippolita.
Eurialo.Perchè?
Accursio.              Mi penso che sia perchè, avendola
Posta con la contessa messer Claudio,
La si vergogni, e le paja che carico
A lui ritorni questo, che fuggitasi
La se ne sia, e sviata abbia Ippolita.
Ed appresso m’ha detto, che volendole
La contessa mandar dietro, non dubita
Mandarà a Ferrara; e qui trovandosi
Messer Claudio, farà il messo ricapito
A lui, siccome ad uomo che amicissimo
Sia della sua padrona e molto intrinseco.
Eurialo.Non sa la Veronese, non sa Ippolita
Che se della contessa è messer Claudio,
Che gli è più mio, ne mai sería per môvere
Lingua di cosa ove credesse offendermi?
Accursio.Ma non sapete voi, che messer Claudio
Meglio dirà che non ci son, credendosi
Di dir la verità, che conoscendosi
Bugiardo? e meglio le parole vengono[1]
Che si parton dal côr, che quelle ch’escono
Sol dalla bocca, a la intenzion contrarie?
Eurialo.Tu pensi ben. Or dille che non dubiti;
Chè, poichè non le par, non son per dirglielo.




  1. L’autografo: «vengano;» e al fine del seguente verso: «escano.» Anche la sentenza qui messa in bocca di Accursio, è tra le più sottili e degne di considerazione.
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