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atto terzo. — sc. iii, iv. 461
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Siccome egli improvviso, non essendoci
Suo padre... tu m’intendi. Venir sogliono
Simil pensieri in gli animi de’ giovani.
Pistone.E che colpa n’ho io, che s’abbia a muovere
Incontra me tanto aspramente?
Accursio.                                                    Lascialo.
Ma chi è colui che viene in qua? Dio ajutaci!
Mi par un servitor.
Pistone.                                 C’hai tu, che tutto ti
Sei cambiato nel viso?
Accursio.                                      È ’l Riccio. Vattene,
Piston, pur senza me: mi bisogna essere
Un poco a casa.
Pistone.                         Addio.
Accursio.                                      Gli è desso; debbelo
Aver mandato dietro a queste femmine
La contessa. Padrone, olà, volgetevi
A me, vedete colui? conoscetelo
Voi?
Eurialo.        Si, per dio! gli è ’l Riccio; oimè, oimè misero!
Gli è desso. Ora le cose in più pericolo
E in più scompiglio che mai s’avviluppano.[1]


SCENA IV.

RICCIO staffiere, e detti.


Riccio.(So ch’io non erro: questa è senza dubbio
La strada; ma la casa dove egli abita
Io non so già qual sia...)
Accursio.                                        Noi cerca, uditelo.
Eurialo.L’odo, e m’incresce udir.
Riccio.                                          (Se questi giovani
Non me la mostran. Ma quelli mi pajono
Ch’io cerco. Appunto son dessi.) Addio, giovani
Dabbene; Dio vi guardi.
Accursio.                                        Da ben guardi te
Dio pur, e noi da male.
Riccio.                                      Tu al contrario


  1. Così Ludovico avea scritto; e sembra che Gabriele emendasse, com’è in tutte le stampe: «Gli è desso: ora sì che siamo in pericolo, E più che mai le cose s’avviluppano.»

39°

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