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atto quinto. — sc. iii. | 497 |
Lazzaro. Ora ascoltatemi.
Io avéa promesso una figliuola, ch’unica
Mi trovo al mondo, a un gioven d’Alessandria:
E questo venía molto al mio proposito,
Per maritar la figlia nella patria...
Ch’io son Alessandrin, forsi sapetelo.
Bonifacio.Sollo per certo.
Lazzaro. Nella qual riducermi
Pur penso in breve; chè sazio di leggere
Io sono veramente, chè scarsissimi
Sono i partiti. Ma in quel tempo essendomi
Cennato, ch’invaghito un messer Claudio
N’era, e di lui non forse men Flaminia
(Chè così questa mia figlia si nomina),
Acciò non mi rompesse questa pratica,
Me lo levai di casa; e perchè avvolgersi
Non cessava qui intorno...
Claudio. (Questa istoria
Incomincio benissimo ad intendere.)
Lazzaro.Oprai con certo modo dispiacevole,
Che fu sforzato a lasciar quel dominio.
Indi volendo stringer questa pratica
Del gioven d’Alessandria, per Lucrezia
A Flaminia il fo intender, che mutatasi
Era già tutta in viso per l’absenzia,
Credo, di questo gioven.
Claudio. (Come piacemi!
Quest’è pur certo amorevole indizio)
Lazzaro.Le condizioni[1] del predetto giovane
Le narra ad una ad una, e persüadela
Far la voglia di quei che la governano.
Ella, come le sia proposto un carcere
Perpetüo, per cambio di rispondere,
Par che si debba consumare in lagrime.
Claudio.(Oh benedette lagrime!)
Lazzaro. Delibero
Con la presenza mia far questo officio.
Ma che? non ne traggo altro che ’l silenzio
Suo consüeto, e pianto in abondanzia.
- ↑ Le antiche stampe hanno: La condizione; indizio che l’autore scrivesse: Le condizione.
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