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atto quinto. — sc. iv. | 505 |
Debbe ecceder il grado di qui. Sonvene
Fra noi pur anco, e di quelle si trovano
Che non han da mangiar quanto vorrebbono.
Spesse fïate.
Lazzaro. Poche non fan regola:
Gaglioffi hanno i mariti forse o miseri.
Questa contessa è ricca e d’una nobile
Stirpe, ed è riverita, ed amicizie
Grandi ha per tutto, in veritade.
Bartolo. Credolo.
Ma che? Debbo io per questo voler rompere
Il collo a mio figliuol? debbe egli togliere
Una fante per moglie?
Lazzaro. Che! credetevi
Ch’io pigliassi per fante questo carico?
È cittadina di Ferrara.
Bartolo. Quadrami
Politamente questo, che sen vadano
Le nostre cittadine sì domestica-
mente. Sia cittadina, vô concederlo:
Se ben fusse di Roma, debbo toglierla
Senza dote? Cittadine si chiamano
Le ben dotate. Ma quando sia Eurialo
Tanto pazzo, ch’ei tolga questa femmina,
Avrà del mio quel che non potrò togliergli.
Ma credo tutte queste siano favole,
Che sia creata[1] di contessa, o nobile
Di questa terra; ma il tutto ordinatosi
È sol per compiacer a questo misero.
Ma te ne pagherò a te,[2] Bonifazio:
Voglio a ogni modo che cavalchi l’asino.[3]
Claudio.Voi gli farete torto, messer Bartolo:
Ei l’ha fatto per essere amorevole
Al figliuol vostro, e non volendo offendervi.
Lazzaro.Ed io ancora non ho fatto il simile?
Ma ben ne voglio ogni buon pegno mettere,
Ch’è cittadina di Ferrara; e dicovi
- ↑ Non nel senso di Generata, ma (spagnolescamente) di Allevata, o Tirata innanzi nella carriera civile.
- ↑ Così hanno le antiche stampe e ancora quella del Barotti. Il Molini segue il Pezzana, che correggeva, come sembra, d’arbitrio: «Ma te ne pagherò ben, Bonifazio.»
- ↑ Che sia frustato per falsario e per ruffiano.
ariosto. — Op. min. — 2. | 43 |
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