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atto quinto. — sc. iv, v. | 509 |
Che mi ha mosso ch’Eurialo abbia la giovane;
Nè volentieri voglio che si sappia.
Ma voglio ir tosto a far disciôrre Accursio,
Chè mi s’è offerto da far per dieci uomini.
SCENA V.
RICCIO, VERONESE.
Riccio.Veggo la Veronese. Onde dïavolo
Vien? Già non esce di casa di Bartolo!
Come un rubino è rossa la vecchia asina.
Veronese.Ho ben potuto aspettar messer Claudio
Quanto ho voluto! Credo che morivami
Della puttana sete, s’uno armario
Non trovava, dove era un certo picciolo
Vasellin c’ho assaggiato: ei sta con ordine,
Con buona malvasía. E le due scatole
E l’albarello non men bisognavami
Io mi partii di casa malinconica:
Ora mi sento ben[1] d’un’altra tempera.
Vô tornar a veder che sia d’Ippolita.
Riccio.Tu sei qui, Veronese? Non t’ascondere,
Ch’io t’ho veduta. Non ti voglio offendere;
Non dubitar, le cose son pacifiche.
Vattene in casa; va, ritrova Ippolita;
Già che la sua ventura abbiam trovatale.
(Appena può star ritta: come brancola
Per ritrovar la porta!) — O plebe e nobili,
Non aspettate che le donne vengano
In pubblico altrimente; che la stanzia
Già un pezzo l’una ha preso; e l’altra mettersi
Volendo in punto, non curerà perdere
Di tempo un’ora e più, come costumano
Far queste spose. Onde più tosto girvene
A casa vi conforto: e prima pregovi
Facciate segno che le nostre favole
Vi sian piaciute; chè così desidera
Chi ha posto studio perch’elle vi piacciano.
- ↑ Nelle edizioni del Grifio e del Giolito: mi sento, so.
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