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atto quinto. — sc. iii. | 55 |
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SCENA III.
FULCIO, MARSO servi.
Fulcio. Debb’io qui tutta notte espettare, come io non abbia se non questa faccenda? Sollécitala tu fin ch’io ritorni, chè vo qui appresso. — Spendono queste femmine pur assai tempo in adornarsi; mai non ne vengono al fine: mutano ogni capello in dieci guise; innanzi che si contentino che così resti, è che fare. Apprima[1] col liscio, — oh che lunga pazienzia! — or col bianco, or col rosso, metteno, levano, acconciano, guastano, cominciano di nôvo, tornano mille volte a vedersi, a contemplarsi nel specchio: in pelarsi poi le ciglia, in rassettarsi le poppe, in rilevarsi ne’ fianchi, in lavarsi, in ungersi le mani, in tagliarsi l’ugne, in fregarsi, strusciarsi[2] li denti, oh quanto studio, quanto tempo si consuma! quanti bossoli, ampolle, vasetti, oh quante zacchere si mettono in opera! in minor tempo si devea di tutto punto armare una galéa. Io potrò ben con grande agio fornire intanto la battaglia che ho giurata a Crisobolo, poichè ho la maggior fortezza espugnata, prima che li nemici avessino drizzata l’artiglieria, per battere l’ultima rôcca che mi fa guerra, che è la borsa di questo tenacissimo vecchio: che se mi succede, come io spero,[3] di aver rotti, vinti ed esterminati gli nemici averò tutta la gloria solo. Or, bussando a questa porta, assalterò le sprovedute guardie.
Marso. Chi è?
Fulcio. Fa assapere a Crisobolo, che un messo del signor Bassam gli ha da fare una imbasciata.
Marso. Che, non entri tu in casa?
Fulcio. Dìgli che si degni venir fôra per buon rispetto, e che per una sua gran faccenda io son venuto.
- ↑ Così ci è parso d’interpretare la forma certamente della stampa del Zoppino: resti, et che far à prima. Cercò, ma non trovò, al parer nostro, un senso il Barotti, che ponendo il punto dopo resti, emendò: «E che faranno prima col liscio?»
- ↑ Stropicciarsi. — (Tortoli.) — In questo senso non è voce toscana.
- ↑ Gli antichi editori tramettono: rapporterò.