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atto quinto. — sc. iv. | 57 |
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Crisobolo. Ha fatto l’offizio di buono amico.
Fulcio. E quelli dui che ha seco il ruffiano, come t’ho detto, mi par che vogliano testificar per lui a tuo carico.
Crisobolo. E di che?
Fulcio. Dicono che ’l barro che ha fatto il giunto, è in casa tua, e che di tuo consentimento è condotta questa cosa.
Crisobolo. Di mio consentimento?
Fulcio. Così dice; e mi[1] par d’aver anco inteso, che tu in persona sei andato a tôrre o cassa o forziere di casa del ruffiano.
Crisobolo. Ah di quanto male sarà causa la leggerezza[2] d’uno fanciullo, sollicitata dal stimulo d’un ribaldo!
Fulcio. Io non ti so ben dire il tutto, chè per la fretta d’avvisarti ho auto, non gli potetti se non in confuso intendere. Caridoro ti manda a dire, che ritenerà quanto gli sarà possibile il ruffiano chè non parli al signore; ma che intanto tu vi veggia di provvedere,[3] acciò che oltra il danno, che saría molto, non ricevessi col tuo figliuolo alcuna pubblica vergogna.
Crisobolo. Che provisione vi posso fare io? Vedi se tutte le sciagure mi perseguono sempre!
Fulcio. Fàgli restituire la femmina, o dàgli qualche aspro, che si taccia.
Crisobolo. Gli farei la femmina restituire di grazia; ma mi pare che se l’hanno, per loro sciocchezza, lasciata tra via tôrre, non sanno da chi.
Fulcio. Non ha Erofilo, dunque, la femmina in mano?
Crisobolo. Non, ti dico, e non sa che ne sia.
Fulcio. Cotesto è il peggio. Come si potrà fare adunque?
Crisobolo. Che so io? Ben so’ il più sfortunato e miser uomo che sia al mondo.
Fulcio. La più corta e miglior via è che tu gli paghi la femmina quello che ad altri l’ha possuta vendere, e che si faccia tacere.
Crisobolo. Mi par strano devere spendere il mio denajo in cosa che non abbia[4] ad avere utile.
Fulcio. Non si può sempre guadagnare, Crisobolo; benchè non sia poco guadagno a vietare con pochi danari uno grandissimo danno, una pubblica vergogna non ti venga ad-