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atto primo. — sc. ii. 67

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Cleandro.     Ciance ben dicesti; unde versus: Opes dat sanctio Iustiniana; Ex aliis paleas, ex istis collige grana.

Pasifilo.     O buono! Di chi è? di Vergilio?

Cleandro.     Che Vergilio? è d’una nostra chiosa eccellentissima.

Pasifilo.     Bella e morale certo, e degna di porsi in lettere d’oro. Tu debbi oggimai avere acquistato più di quello che ad Otranto lasciasti.

Cleandro.     Triplicato ho le mie facultà: è vero ch’io vi perdei uno figliolino di cinque anni, che avevo più caro che quanta robba sia al mondo.

Pasifilo.     Ah! troppo gran perdita veramente.

Cleandro.     Non so se morisse, o pur viva ancora in cattività. Pasifilo.     Io piango per compassione ch’io n’ho: ma sta di buona voglia, chè con Polimnesta ne acquisterai degli altri.

Cleandro.     Che pensi tu di queste lunghe che Damone mi dà?

Pasifilo.     È il padre desideroso di ben locare la figliuola: prima che determini, vuol pensarci e ripensarci un pezzo; ma non dubito che in tuo favore non si risolva in fine.

Cleandro.     Gli hai tu fatto intendere ch’io gli voglio far sopraddote di doi milia ducati d’oro?

Pasifilo.     Io non son stato a quest’ora.[1]

Cleandro.     Che ti risponde?

Pasifilo.     Non altro, se non che Erostrato gli offerisce il medesimo.

Cleandro.     Come può obligarsi Erostrato a questo, essendo figliuolo di famiglia?

Pasifilo.     Credi tu ch’io sia stato negligente a ricordarglielo? Non dubitare, che l’avversario tuo non è per averla, se non forse in sogno.

Cleandro.     Va, Pasifilo mio, se mai aspetto da te piacere, e truova Damone, e digli ch’io non gli dimando altro che sua figliuola, e non voglio da lui dote: io la doterò del mio, e se dua milia ducati non sono a bastanza, io gliene aggiugnerò cinquecento, e mille, e quel più che vuole egli medesimo. Va, e fa quell’opra: so che tu saprai fare. Non intendo a modo alcuno perdere questa causa. Non tardar più, va adesso.


  1. A dirgli cotesto non ho indugiato a ora. — (Tortoli.)
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