< Pagina:Boccaccio-Caccia e Rime-(1914).djvu
Questa pagina è stata trascritta, formattata e riletta.
130 Giovanni Boccacci

[[Categoria:Pagine che usano RigaIntestazione|Boccaccio-Caccia e Rime-(1914).djvu{{padleft:162|3|0]]

  Disfrenati cavai, tori armentari[1],
  Rabbiosi can, tempeste et discendenti
  Folgori, tuoni, impetuosi venti,5
  Ruine incendii scherani et corsari,
  Discorridori armati et sagittari
  Soglion fuggir le paurose genti.
Ma io, che non son tal[2], perché discerno
  Com’horribil fuggirmi a chi non torna,10
  Fuggita, se non vede dipartirme?
  Forse son io el diavol de l’inferno?
  Et crederrel s’io avessi le corna,
  Poi che così a costei veggio fuggirme!


LXXXIX.

Poco senn’à chi crede la fortuna
  O con prieghi o con lacrime piegare,
  Et molto men chi crede lei fermare
  Con sermo[3], con ingegno o arte alcuna.
  Poco senn’à chi crede atar[4] la luna5
  A discorrer il ciel per suo sonare[5],
  Et molto men chi ne crede portare,
  Morendo, seco l’or che qui raguna.


  1. «Che vivono in armento.»
  2. «Non sono nessuna di queste cose paurose.»
  3. «Sermone, discorso.»
  4. «Aiutare.»
  5. Di questo errore popolare degli antichi si confessa in colpa la Fiammetta nel racconto omonimo: ‘E ricordami ch’io, della lentezza del corso di lei (la luna) crucciandomi, con vani suoni, seguendo gli antichi errori, aiutai il corso di lei alla sua rotondità pervenire’ (III).
Questa voce è stata pubblicata da Wikisource. Il testo è rilasciato in base alla licenza Creative Commons Attribuzione-Condividi allo stesso modo. Potrebbero essere applicate clausole aggiuntive per i file multimediali.