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[1656-1659] Scienze e lettere, poesia, ecc. 553

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secondo che vuole l’uso, supremo arbitro e moderatore della lingua:

1656.                                 ....Usus
Quem penes arbitrium est et jus et norma loquendi.[1]

(Ivi, v. 71-72).

Il fatto è che nulla vi ha di nuovo sotto il sole, né cose né parole, ed in verità

1657.   Nullum est jam dictum, quod non dictum sit prius.[2]

(Terenzio, Eunuchus, Prol., v. 41).
e il tempo medesimo che ricopre di oblio talune cose, altre ne richiama in luce ed in onore:

1658.   Quidquid sub terra est, in apricum proferet aetas.[3]

(Orazio, Epistole, lib. I, ep. 6, v. 24).
che era la bella ed acconcia impresa assunta dai fratelli Volpi a fregiare le edizioni cominiane (di Padova) da loro curate, e con le quali intendevano togliere all'oblio le opere degli antichi classici.

A molte parole può giustamente appropriarsi il noto verso, che tutti conoscono, ma di cui pochi sanno la fonte:

1659.   Conveniunt rebus nomina sæpe suis.[4]

È di un oscuro autore medievale, il giudice Riccardo da Venosa vissuto ai tempi di Federico II; e si trova in un poemetto drammatico da lui composto fra il 1230 e il 1232, col titolo De Paulino et Polla (v. 411-412):

Nomine Polla vocor quia polleo moribus altis:
Conveniunt rebus nomina sæpe suis.

  1. 1656.   L’uso in balia del quale sono l’arbitrio e la legge e la norma del parlare.
  2. 1657.   Non si dice cosa alcuna che non sia stata detta avanti.
  3. 1658.   Tutto ciò che è sotto terra, tornerà alla luce col tempo.
  4. 1659.   Spesso i nomi sono appropriati alle cose cui appartengono.
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