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104 | capitolo v. |
[[Categoria:Pagine che usano RigaIntestazione|Chiarini - Vita di Giacomo Leopardi.djvu{{padleft:132|3|0]]letture di classici delle tre lingue, e seguitò la sua corrispondenza col Giordani.
In una lettera scrittagli il 22 dicembre 1817, un giorno avanti di finire il Diario, v’è qualche accenno allo stato dell’animo suo in quel tempo. «M’è accaduto per la prima volta in vita mia, scrive all’amico, di essere alcuni giorni, per cagione non del corpo ma dell’animo, incapace e non curante degli studi.»[1]
Ma nonostante il ritorno agli studi, nonostante l’amicizia del Giordani, nonostante che la salute, andando meno male, lo lasciasse un po’ lavorare, la sua malinconia cominciò in questo tempo a farsi più cupa, e cominciò a balenare alla sua mente quel concetto pessimistico della vita e del mondo, che, affermatosi più intensamente nel 1819, informò poi tutte le sue opere.
Finché era corso dietro al fantasma della gloria, e quello gli era sembrato il fine supremo della vita, quasi non si era accorto della sua deformità, o non ne aveva fatto caso. Voleva essere ammirato per le opere dell’ingegno, non per le forme del corpo; ma anche il corpo reclamava ora i suoi diritti, i diritti della gioventù, della vita.
Nel primo giorno dell’innamoramento per la Cassi, egli sfuggì a bello studio la vista e il pensiero della sua propria immagine; ma poi la tentazione lo vinse e si guardò nello specchio; si guardò, dice egli stesso, col manifesto desiderio di trovare nel suo volto qualche cosa che potesse piacere. Di tratto in tratto era preso come da un imperioso bisogno di persuadere a sè stesso che in lui c’era pure qualche cosa che poteva ispirare amore. Più tardi scrisse: «La mia faccia aveva quando io era fanciulletto, e anche più tardi, un non so che di sospiroso e serio che, essendo senza nessuna affettazione di malinconia, le dava grazia, come vedo in un mio ritratto fatto allora con
- ↑ Epistolario di Giacomo Leopardi, vol. I, pag. 115.