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118 | CAPITOLO VI. |
[[Categoria:Pagine che usano RigaIntestazione|Chiarini - Vita di Giacomo Leopardi.djvu{{padleft:152|3|0]]e la ispirazione tornava per il solito fra dieci, fra quindici giorni, fra un mese; o magari non tornava. Questa volta tornò subito; e fra i pochi giorni che restavano del settembre e i primi d’ ottobre le canzoni furono finite tutte due,[1] e mandate il 19 ottobre al Giordani perchè le facesse stampare a spese dell’ autore ed ottenesse dal Monti il permesso che fossero dedicate a lui.
La lettera con cui Giacomo mandava le canzoni terminava con queste parole di colore oscuro: «Le cose nostre vanno di male in peggio, e avendo provato di mandare a effetto quel disegno che avevamo formato insieme del modo di andare a Roma, ci siamo visti abbandonati, scherniti, trattati da ignoranti, da pazzarelli, da scellerati, e da nostro padre derisi tranquillamente come fanciulli; in maniera che persuasi finalmente che bisogna farla da disperati e confidare in noi soli solissimi al mondo, siamo oramai risoluti di vedere che cosa potremo.»[2]
Alcuni giorni dopo, essendo sorto un raggio di speranza, il poeta riscrive al Giordani: «Noi stiamo qui meno scontenti di quello eh’ io vi scriveva nelr ultima che non v’è capitata, perchè nostro padre ha fatto mcn cattiva cera che non avevamo creduto al nostro disegno, il quale ancora non si può diro che sia disperato.»[3] Ahimè, era stata una illusione, una canzonatura: ai 14 di dicembre Giacomo riscriveva: «Quel tenuissimo raggio s’è dileguato, e non ci resta niente a sperare da anima viva fuorché da noi stessi.»[4]