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[[Categoria:Pagine che usano RigaIntestazione|Chiarini - Vita di Giacomo Leopardi.djvu{{padleft:49|3|0]]lui, fu amantissimo; quanto dovè poi odiarla e maledirla il suo grande e infelice figliuolo.
Era fatale che padre e figlio fossero, in ogni cosa, l’uno l’opposto dell’altro.
Quando nel 1847 Monaldo morì, la Gazzetta di Modena, giornale clericale, «parlò di lui con enfasi, come di un Salomone.»[1] Così scriveva con amara ironia Pietro Giordani a un amico.
Monaldo (poichè dobbiamo dire due parole di lui come scrittore) fu, anzichè un Salomone, una testa balzana; ma fu uomo non volgare; amò i libri e gli studi; e con questo duplice amore, forse con le sue stranezze medesime, aprì al figlio la via di divenire una gloria d’Italia.
Ebbe per istitutore un ex-gesuita spagnuolo, Giuseppe Torres, che, rifugiatosi in Italia, fu accolto amorevolmente ed onorevolmente in casa Leopardi, dove passò il resto della vita. Monaldo gli si professa riconoscente per la buona educazione con la quale, afferma lui, seppe formargli il carattere. Egli fu, dice nell’Autobiografia, «non già il mio precettore soltanto, ma il mio padre ed amico, e a lui devo la mia educazione, i miei principii e tutto il mio essere di cristiano e di galantuomo.» Ma l’affetto che per ciò gli ebbe sempre non gl’impedì di chiamarlo l’assassino de’ suoi studi. I metodi coi quali lo ammaestrava erano così bestiali e opprimenti che dopo qualche anno il giovinetto «annoiato, indispettito, e disperato, fece proponimento di non studiare, e lo mantenne fedelmente.»
Ciò però non gli tolse l’amore dei libri e della lettura, sbocciato in lui fin da ragazzo.
- ↑ Giordani, Epistolario, vol. VII, pag. 189.