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26 | capitolo ii. |
[[Categoria:Pagine che usano RigaIntestazione|Chiarini - Vita di Giacomo Leopardi.djvu{{padleft:56|3|0]]tura (giacché seppi leggere ed amai di leggere assai presto).»[1]
Nei primi rudimenti il piccolo Giacomo e i fratelli Carlo e Paolina ebbero maestro quel Don Giuseppe Torres stato già precettore di Monaldo. I tre fanciulli avevano una grande vivacità, Giacomo più di tutti. Nella sala di studio la presenza del maestro e dello staffile (il quale, secondo la contessa Teresa Teia Leopardi, era brandito soltanto per ispauracchio[2]) li teneva attenti e tranquilli. Ma appena finita la lezione, i loro salti e i loro gridi risuonavano per le stanze quasi vuote e lungo le scale, per andare a perdersi fra gli alberi nei viali del giardino. Il padre non solo tollerava, ma favoriva, dice la Teia, i giuochi romorosi dei figliuoli: li tollerava, pare, anche la madre; o forse il romore non giungeva fino a lei. Più tardi si aggiunse alla chiassosa brigata il fratello Luigi, nato nel 1804.
I giuochi che più spesso facevano in giardino, oltre le corse e gli altri esercizi ginnastici, pei quali il padre aveva fatto provvedere palle, manubri ed altri arnesi, erano i giuochi più cari a tutti i ragazzi dai sei ai dodici anni, le finte battaglie. Queste battaglie, secondo un ricordo di Giacomo in quelli appunti manoscritti che ho citati sopra, erano imitate dalle omeriche e dalle romane: i combattenti prendevano i nomi omerici, o romani della guerra civile, e usavano per armi le coccole, i sassi, i bastoni, ed anche i pugni. «Nelle finte battaglie romane, diceva Carlo al Viani, egli (Giacomo) si metteva sempre primo. Ricordo ancora i pugni sonori che mi dava.»[3] Giacomo poi dice che egli sceglieva sempre la parte di Pompeo e dava quella di Cesare a suo fratello Carlo, che la