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30 capitolo ii.

[[Categoria:Pagine che usano RigaIntestazione|Chiarini - Vita di Giacomo Leopardi.djvu{{padleft:60|3|0]]fece tale impressione, che credettero gli fosse venuto male: si occupava di un fratellino più piccolo (Pietruccio), gli suonava (sono sue parole) quando era in fasce, lo ammaestrava, gli faceva spariente circa le tenebre: si entusiasmava per la uccisione di Cesare: studiando la geografia, concepì il desiderio di viaggiare: era compiacente e lezioso, ma terribile nell’ira, e per la rabbia andato in proverbio tra fratelli, più cattivi nel resto: piangeva e si rattristava d’esser uomo, perchè sua madre lo teneva per matto.

Una delle sue cugine, Ippolita Mazzagalli, maggiore a lui di un anno, raccontava, non più giovine, alla Tela che Giacomo mostrò fino da piccolo uno d’osservazione veramente singolare, adducendo in prova questo aneddoto. Una sera che la contessa Adelaide aveva conversazione, si trovarono per caso riunite nel suo salotto molte persone tutte di una bruttezza straordinaria. Giacomo avvicinandosi al fratello Carlo e alla cugina disse loro: «Qui non si sa ove riposare lo sguardo.» Questo fatto dimostra pure che il fanciullo era già un amante della bellezza: e con l’amore della bellezza andava congiunto in lui un naturale aborrimento di tutto ciò ch’era brutto, basso, volgare. I discorsi sciocchi e le allegrie triviali dei servitori, ch’egli talvolta udiva stando in una stanza attigua all’anticamera, lo facevano, attesta Carlo, ruggire come un piccolo leone. Al tempo dell’aneddoto narrato dalla Mazzagalli, Giacomo, dico essa, non aveva ancora otto anni.[1]

Aveva presso a poco la stessa età quando inventava le lunghe novelle dello quali parlano Carlo e la Teia. Carlo diceva a Prospero Viani: «Giacomo ebbo fino da fanciullo l’abilità straordinaria d’inventar solo novelle, e di seguitarne alcuna per più giorni, come

  1. Vedi Contessa Teresa Teia Leopardi, Note citate, pag. 87 e 28 in nota.
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