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46 capitolo ii.

[[Categoria:Pagine che usano RigaIntestazione|Chiarini - Vita di Giacomo Leopardi.djvu{{padleft:74|3|0]]tetelo, a suo dispetto, conservate, invigorite la sua salute con esercizi corporali.... invece di lasciarlo fra i libri, nelle prime due ore della sera portatelo a discutere nel crocchio di Gualandi....; mandatelo presto a Roma.... Se la separazione vi duole, il dovere di padre lo esige.»[1]

Qual genitore non si sarebbe arreso all’evidenza di queste ragioni, avendo tutti i giorni dinanzi agli occhi il figlio, che andava tutti i giorni deperendo e deformandosi? Monaldo rispose al cognato:

«Dite benissimo rapporto alla troppa applicazione del mio Giacomo. Io ne lo riprendo continuamente, ma egli si è fatto talmente allettare dallo studio che nulla gusta più fuori dei libri, e mi conviene prendere il tono serio per distaccamelo. Convengo ancora che qualche anno di Roma lo renderebbe quello che non può divenire in Recanati, anzi aggiungo che avendo con lo studio e col profitto prevenuta l’età, sarebbe quasi tempo già, di mandarvelo; ma questo è per me un tasto troppo sensibile. Privandomi di lui mi priverei nella mancanza vostra dell’unico amico che ho e posso sperare in Recanati, e non mi sento disposto a questo sacrificio.... Lasciamo al tempo suggerire le risoluzioni opportune.»[2]

Questa lettera, del 22 luglio 1813, è in risposta alla prima deirAntici: con altra, del 21 dicembre dello stesso anno, in risposta a nuove sollecitazioni di lui, soggiunge: «Non mi sento ancor disposto a mandare in Roma il mio amatissimo Giacomo. Lasciamo stare che il mio cuore no soffrirebbe indicibilmente, e che io rimarrei più desolato che mai, perchè alla fine se posso proprio necessario di mandarlo, dovrei russcgnarmi a qualunque sacrificio; ma io sono più che persuaso che la salute non gli permette troppo

  1. Appendice cit., pag. 280, in nota.
  2. Ivi, pag. 279.
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