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INFERNO. — Canto VIII. Verso 107 a 112 189

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  Conforta e ciba di speranza buona
  Ch’io non ti lascerò nel mondo basso.
Così sen va, e quivi m’abbandona
  Lo dolce padre, ed io rimango in forse; 110
  Che sì e no nel capo mi tenzona.
Udir non pote’ quello ch’a lor porse:[1]


  1. V. 112 Witte scrisse Si porse. Si domanderebbe: da chi? Non è d’uopo. Dice il testo: lo non potei udire ciò che Virgilio porse a loro; qui il Witte, pare, non bene




li sette vizii mortali; cioè per lo scritto che dicea: Rex Judeorum, essere a tal condizione, come che inchinò lo capo, questo dovrebbe ogni superbia raumiliare; ancora la estensione delle braccia, quasi invitando i peccatori che l’andasseno ad abraciare; e l’abraciare diviene da grande amicizia e da amore, le quali cose opponeno alla invidia. Avarizia fuga la detta passione considerando come ne fu largo che volle spendere lo suo corpo per recomperare e absolvere dalla pena eternale. E più ancora che ne lassò lo predetto corpo e sangue in lo misterie del sacramento della messa, lo qual noi possiamo vedere e comunicare a nostra posta. Denno eziandio tòrre l’ accidia quando pensiamo che non fu pigro in largirne tal donosquando disse: spiritus mitem promptus est etc. Similmente allora rispondea alli perseguitatori umilemente quando disse: si male locutus sum testimonium perhibe de malo etc. Ancora la gola considerando la pozione che li fu data, cioè fele ed aceto. E per consequens la lussuria, quando consideriamo la piaga ch’elli ebbe nel costato: con ciò sia cosa che quella passion della piaga del costato fu nel sangue, e lussuria è ed adiviene per soverchia abondanza di sangue.

Sichè a proposito, e la passione e ’l segno di quella, come li effetti sono odiati dalli demoni, e però il luogo dove sia quel segno, lo demonio non può nuocere. Contra lo secondo caso si è per cibo orazione, e temperatamente usar cibi e sonni; che la orazione induce lo uomo a contemplare con Dio e con li suoi santi, la quale contemplazione libera l’uomo da imaginazioni pericolose ed ingannevoli; ancora temperanza in lo vitto che a chi usa distemperatamente sì in poco come in troppo sonni e cibi, ascendono fumositadi al celebro, per le quali si formano spezie diverse nella fantasìa, e deviano lo intelletto dalla veritade e dritta via.

Contra lo terzo caso si è per cibo la scienzia ragionevile e dritta, la quale abuia ed esclude ogni inganno in cognizione che possa esser fatto all’uomo, che per scienza sì naturale come revelata si cognosce ogni effetto e fine di ciascun atto. E però chi l’ha, può essere difficilmente ingannato.

V. 109. Qui segue suo poema mostrando quando dice sì e no che non era molto fermo: e soggiunge ch’era attento della vista poiché non potea per la distanzia udire loro accoglienza. E dice che chiuser le porte quasi mostrando discordia.

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