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[[Categoria:Pagine che usano RigaIntestazione|Corano.djvu{{padleft:9|3|0]]decisione del primo cittadino che entrerebbe per la porta del tempio. Maometto, che lavorava anch’esso alla riedificazione di questo tempio, e che era stato assente per alcune ore, vi entrò, fu preso per giudice, fece mettere la pietra negra sopra un mantello, di cui un membro di ciascuna tribù doveva tenere una parte, e posò la pietra negra colle sue mani. Maometto che si era già acquistata la reputazione di uomo da bene, ed il soprannome di Emin (leale e fedele), si conciliò con questa decisione l’approvazione e la stima generale, giacchè, ponendo d’accordo le pretese di quattro famiglie, seppe, senza ferirle, contentare onorevolmente i Coreiciti in una circostanza così solenne. Da questa epoca in poi l’istoria di Maometto non ci apprende nulla sulla sua vita fino all’età di quarantanni, che fu l’anno della di lui missione. Fin dalla sua infanzia si era sempre riconosciuto in esso un gusto deciso per la solitudine, e spesso colla sua famiglia si ritirava sulla montagna di Harra, vicina alla Mecca, ove passava le notti intere nella solitudine e nella meditazione; le memorie che gli lasciavano i suoi viaggi in Siria, le discussioni avute coi cristiani e con gli ebrei sparsi in tutta l’Arabia, lo spettacolo delle loro dispute religiose, la devozione dei monaci, la vita inquieta e selvaggia degli Arabi, tutte queste cose insieme non orano estranee alle gravi preoccupazioni di Maometto; in poco tempo la di lui mente si esaltò, sentì scorrere nelle vene il sangue d’Ismaele figlio d’Abramo, e conservatore del dogma dell’unità di Dio; si credè anche chiamato a spezzare gl’idoli della sua nazione, siccome aveva fatto il suo avolo.
Arrivato a 40 anni, un giorno, assorto nelle sue meditazioni, credè di sentire una voce che gli gridava:
«Leggi in nome di Dio che ha creato l’uomo, che ha insegnato all’uomo la Scrittura, e che gli ha imparato ciò che esso non conosceva (Corano Cap. 96).» Andò in mezzo alla montagna, ed intese un’altra voce: «O Maometto! tu sei l’Apostolo di Dio, ed io son Gabriele.» Questa voce decise della sua missione profetica; raccontò la visione a sua moglie, la quale ne fece subito parte a Warka-ben-Naufel di lei cugino, uomo versato nelle Scritture; costui ammise la possibilità della rivelazione, e vide in Maometto il Mosè degli Arabi[1]; Khadidja abbracciò per la prima la nuova fede, e dopo essa Alj figlio di Abou-Taleb, Zaid, e Abou-Bek’r. Ma l’influenza morale che esercitò Maometto su coloro che lo circondavano, non potè subito farsi gran largo, e non fu che dopo tre anni, e dopo molte discussioni ed iniziazioni segrete, che dichiarò apertamente la guerra alle antiche credenze dei suoi concittadini; le prime prediche gli attirarono dapprima molte derisioni, e più tardi l’odio e l’invidia lo perseguitarono fino nella sua famiglia; sebbene questi dispiaceri fossero largamente ricompensati dal guadagnare alcuni uomini rimarchevoli, come Omar, e Hamza, pure una gran quantità di proseliti fu obbligata di abbandonare la Mecca, e fuggire sino in Abissinia le persecuzioni degli idolatri; i Coreiciti si erano fino impegnati
- ↑ Warka-ben-Naufel fu uno dei personaggi di maggiore importanza nel principio della carriera di Maometto. De Hammer si formalizza come i biografi europei di Maometto abbiano così poco rimarcato un uomo che, come cristiano, come religioso, e traduttore della Bibbia in arabo, doveva aver una gran parte nell’istruzione di Maometto, e per conseguenza nella creazione del Corano. Non sappiamo dove Hammer abbia attinto ciò che asserisce sul conto di Warka-ben-Naufel, ma basta di paragonare i racconti del Corano sull’istoria degli ebrei e dei loro profeti con quelli della Bibbia, per convincersi che non vengono da un uomo versato nelle Scritture, e che si tratta di reminiscenze nelle quali il falso e l’apocrifo sono quasi sempre a fianco del vero e dell’autentico.