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[[Categoria:Pagine che usano RigaIntestazione|Deledda - Cenere, Milano, 1929.djvu{{padleft:231|3|0]]ad estirpare le male erbe, che riconosceva al tatto e all’odore.

— Come state? — gridò Anania.

— Sono morto, figlio mio, — rispose il vecchio. — Non vedo più. Non sento più.

— Coraggio, guarirete....

— Nell’altro mondo, nel mondo della verità, dove tutti guariremo, dove tutti vedremo e sentiremo; ah, figlio mio, non importa, quando io vedevo con gli occhi del corpo la mia anima era cieca; adesso invece io vedo, vedo con gli occhi dell’anima. Ma raccontami: hai veduto il papa?

Uscito dall’orto Anania girovagò per il vicinato: sì, quel cantuccio di mondo era sempre lo stesso; ancora il pazzo, seduto sulle pietre addossate ai muri cadenti, aspettava il passaggio di Gesù Cristo, e la mendicante guardava di sbieco la porta di Rebecca, sul cui limitare la misera creatura tremava di febbre e fasciava le sue piaghe; e maestro Pane fra le sue ragnatele segava le tavole e parlava fra sè ad alta voce, e nella bettola la bella Agata civettava coi giovani e coi vecchi, ed Antonino e Bustianeddu si ubriacavano e di tanto in tanto scomparivano per qualche mese e ricomparivano coi volti un po’ sbiancati dal servizio del re[1]. E zia Tatàna preparava ancora i dolci per il suo diletto «ragazzino», sognando il giorno della sua laurea e già numerando col desiderio

  1. Il carcere.
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