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Lettera Quarta 21

[[Categoria:Pagine che usano RigaIntestazione|Dieci lettere di Publio Virgilio Marone.djvu{{padleft:28|3|0]]le italiane, ei dicea, recato onore vivendo, e a noi renduta l’antica estimazione in Europa. Ma poco diletto n’avemmo alla pruova per molti vestigi di rusticità, e di barbarie che nel suo stile latino, e nel poema avevamo incontrati. Per altra parte il Fracastoro, il Sannazaro, ed altri, che con noi vivono in compagnia, le rime italiane ci lodavano sempre, ed il Petrarca esaltavan per quelle singolarmente, avvertendoci insieme esser elleno di nuova maniera poesie, nè per avventura al nostro gusto adattate. Appena infatti ne cominciai la lettura, che ognuno rimase incerto, e sospeso sentendo una poesia non conosciuta, un pensar nuovo, uno scrivere inusitato. Greci e Latini si guardavano in faccia, e quantunque Platone altra volta ci avesse parlato in quel modo a un di presso, e con idee somiglianti, della bellezza, e dell’amore, pur nondimeno eran nuove per noi certe immagini, certe grazie di stile, certi colori poetici Petrarcheschi. Tibullo ed io sentivam qualche gusto più che non sentivano gli altri. Quella dolce passione che sta nell’anima, e dalla calda immaginazione è dipinta soavemente in ogni oggetto, quell’amor sovrumano, que’ voli eccelsi ed impetuosi d’un affetto sublime, e lontano da ogni nebbia di senso, a noi piacevano mentre Orazio e Properzio, Pindaro ed Anacreonte le trovavano insulse, o fredde. A’ nostri giorni non si sapea filosofar tanto con l’idee né con gli affetti amorosi, e dipignevamo per ordinario gli oggetti sensibili o fossimo più materiali per inclinazione, o non avessimo dalla natura sortita un’anima sì passionata, o un cuor sì gentile. Ma dopo aver fatta qualche sperienza di quello stile, e di quella maniera un’incredibil piacere sentiron tutti, e tanto più vivo, che il più intimo seno movea dell’anima, e degli affetti. Quanto più

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